I trenta giorni che hanno cambiato la nostra vita

Pensieri da Milano all’epoca del Coronavirus

I primi giorni, dopo il ricovero del Paziente 1 in una piccola cittadina a sud di Milano e i casi che si moltiplicavano esponenzialmente, credo fossimo tutti un po’ increduli, come in trance, con l’idea che tutto sommato questa cosa non ci appartenesse. L’area del contagio era stata isolata, messa in quarantena ma noi, qui a Milano, continuavamo a essere tranquilli. Era successo qualcosa che influenzava le nostre vite, lo capivamo, ma non ne avevamo ancora capito la portata. Certo, c’era un po’ meno gente nelle strade ma nei quartieri come il mio non c’era grossa differenza, si continuava da andare in giro, magari evitando di prendere mezzi pubblici nell’ora di punta e preferendo un aperitivo al bar seduti piuttosto che in piedi al bancone affollato.

Con il passare dei giorni e il moltiplicarsi dei casi, si sono rese necessarie delle misure restrittive che impedissero la continua circolazione delle persone. Le autorità hanno deciso così di chiudere i bar alle 18 ma non i ristoranti dove, grazie ai tavoli, il “distanziamento sociale” era garantito… e così poco alla volta, settimana dopo settimana, le scuole, le università, gli uffici e tutte le attività commerciali sono state chiuse (a parte gli alimentari e le farmacie) e le nostre libertà personali si sono ristrette in maniera inversamente proporzionale all’aumentare dilagante dei contagi.

Dobbiamo stare a casa, uscire solo per ciò che è strettamente necessario. In Lombardia, che ha un sistema sanitario tra i migliori in Europa, le terapie intensive sono al collasso, mancano medici e infermieri, ci sono svariate centinaia di morti ogni giorno… e noi cittadini, per fare la nostra parte – cioè evitare che peggiori la situazione – dobbiamo rimanere a casa.

E così, nel giro di un mese, la mia vita ben ripartita tra la redazione di 5 Continents, il corso di yoga, i weekend fuori città con il mio compagno, la stagione alla Scala, le cene con le amiche è radicalmente cambiata. Da dieci giorni lavoro da casa e il tempo si è dilatato. È una sensazione simile a quella provata da bambina quando, negli anni Settanta, una malattia infettiva mi costringeva a stare a casa e bisognava aver pazienza e usare l’ingegno per far passare il tempo.

Ho davanti a me un tempo prezioso, un tempo ritrovato, un tempo – paradossalmente – da vivere pienamente. Un regalo di un pipistrello a me e a tutta l’umanità? Forse, è troppo presto per dirlo, per tirare le somme.

Per far fronte all’inevitabile ansia che mi coglie non sapendo quando tutto questo finirà, penso che la migliore strategia sia vivere nel presente, dedicandosi ad attività spesso rimandate a causa dei troppi impegni e al correre dietro alle cose della vita.

E così ritrovo il piacere di leggere, non alla sera stravolta dopo un’intensa giornata, ma nel pomeriggio; oppure scrivo, metto a fuoco pensieri, tengo un diario; finalmente riesco a dedicarmi alla yoga anche a casa; ho la fortuna di avere un terrazzo a Milano, marzo è il mese migliore per rassettarlo e poi le piante danno grande soddisfazione; vorrei studiare qualcosa di nuovo ­– è un momento in cui mi interessa l’urbanistica, che riguarda tutti noi così da vicino – e chissà che non ne nascano delle idee editoriali da sviluppare.

Quello che è certo, è che non si può più tornare indietro. Quando questo incubo sarà finito, avrà lasciato macerie – in noi, nelle nostre famiglie, nella nostra economia – ma mi auguro che abbia anche lasciato in ciascuno di noi la consapevolezza di quanto siamo interconnessi, di quanto siamo fragili e di quanto sia importante avere rispetto del nostro pianeta. Solo da qui potremo cominciare la ricostruzione.

Elena Carotti, Editor in chief, 5 Continents Editions, Milano

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